Shakira the Pelvis in concerto Flamenco, dance e kitsch music
«Ricorda, Torino, questa sera sono tutta tua». La maliziosa frasetta buttata lì in perfetto italiano ad inizio show ricorda il «Siete già caldi?» di Madonna. Fremono e urlano i 12 mila e passa arrivati da tutto lo Stivale e stipati nell'esauritissimo Palaisozaki per l'unico concerto italiano ieri sera della colombiana Shakira con il «The Sun Comes Out Tour», dal titolo del recente disco «Sale el Sol», con il quale la cosiddetta conturbante cantautrice sta riscattando il risicato esito di «She Wolf», album poco piaciuto perché troppo dance e poco shakiresco. Non c'è niente da fare, la sua ricetta funziona solo se lei resta latina, pena far la fine di una Nelly Furtado qualunque.
E al Palaisozaki è davvero salito il sole, alla vigilia di una domenica annunciata nevosa; in due ore, al riparo dal gelo e fra molti bambini e bambine, è stato come un viaggio virtuale dentro un mondo di sfumature di colori e umori etnici, dove la perizia nella danza del ventre della trentatreenne artista (per via delle origini libanesi) la fa da padrona. Ritmo indiavolato, sensualità sfrenata, eppure in qualche modo la fanciulla riesce a rimanere un personaggio per famiglie, grazie all'aura di bontà che la circonda, alla semplicità e alla generosità in scena; ma pure per quelle ballatone a gola piena tipo «Inevitable» e «Underneath Your Clothes», tutte pathos latino e kitsch.
La svolta verso la popolarità internazionale di Shakira è legata a un accorto uso della fisicità della musica, e a una globalizzazione controllata con astuzia. Musica del Sudamerica ma anche no, perché lo spettacolo ingloba suoni di tradizione con evoluzioni e declinazioni verso il reggaeton o il merengue più plastico e domenicano, e ventate folk, e robuste spruzzate di dance, elettronica, rock, grazie alla bella energia da una band assai dedicata, con perfino una cover in acustico dei Metallica, «Nothing Else Matters». Il cocktail funziona anche per via della vocalità dell'autrice-interprete, contralto che pecca solo dei ripetuti gorgheggi virtuosistici di gola tanto di moda (da noi hanno generato il tristo «Singhiozzo» dei Negramaro).
Shakira sa usare il corpo come uno strumento. L'arrivo in scena è dal pubblico, con lei che intona «Pienso en ti», dal suo vecchio disco ««Pies Descalzos», avvolta da un abito fucsia che cade non appena mette piede sul palco. In leggins e corpetto dorato affronta una «Why «Wait» molto energica, e resta yankee il tempo anche di «Whenever Wherever», quando fa salire sul palco 4 ragazze per insegnare la danza del ventre. Fa concorrenza a Elvis Presley per l'uso del bacino. In lunga gonna gitana, domina un lungo siparietto acustico nel quale si dà al flamenco e a danze osé, con qualche intensa suggestione folk in «Gipsy». Poi tocca al merengue e al reggaeton di «Gordita», e in una varietà ribalda di atmosfere si arriva al gran finale con «Hips Don't Lie» e «Waka Waka» attesissima da un pubblico letteralmente adorante.
E al Palaisozaki è davvero salito il sole, alla vigilia di una domenica annunciata nevosa; in due ore, al riparo dal gelo e fra molti bambini e bambine, è stato come un viaggio virtuale dentro un mondo di sfumature di colori e umori etnici, dove la perizia nella danza del ventre della trentatreenne artista (per via delle origini libanesi) la fa da padrona. Ritmo indiavolato, sensualità sfrenata, eppure in qualche modo la fanciulla riesce a rimanere un personaggio per famiglie, grazie all'aura di bontà che la circonda, alla semplicità e alla generosità in scena; ma pure per quelle ballatone a gola piena tipo «Inevitable» e «Underneath Your Clothes», tutte pathos latino e kitsch.
La svolta verso la popolarità internazionale di Shakira è legata a un accorto uso della fisicità della musica, e a una globalizzazione controllata con astuzia. Musica del Sudamerica ma anche no, perché lo spettacolo ingloba suoni di tradizione con evoluzioni e declinazioni verso il reggaeton o il merengue più plastico e domenicano, e ventate folk, e robuste spruzzate di dance, elettronica, rock, grazie alla bella energia da una band assai dedicata, con perfino una cover in acustico dei Metallica, «Nothing Else Matters». Il cocktail funziona anche per via della vocalità dell'autrice-interprete, contralto che pecca solo dei ripetuti gorgheggi virtuosistici di gola tanto di moda (da noi hanno generato il tristo «Singhiozzo» dei Negramaro).
Shakira sa usare il corpo come uno strumento. L'arrivo in scena è dal pubblico, con lei che intona «Pienso en ti», dal suo vecchio disco ««Pies Descalzos», avvolta da un abito fucsia che cade non appena mette piede sul palco. In leggins e corpetto dorato affronta una «Why «Wait» molto energica, e resta yankee il tempo anche di «Whenever Wherever», quando fa salire sul palco 4 ragazze per insegnare la danza del ventre. Fa concorrenza a Elvis Presley per l'uso del bacino. In lunga gonna gitana, domina un lungo siparietto acustico nel quale si dà al flamenco e a danze osé, con qualche intensa suggestione folk in «Gipsy». Poi tocca al merengue e al reggaeton di «Gordita», e in una varietà ribalda di atmosfere si arriva al gran finale con «Hips Don't Lie» e «Waka Waka» attesissima da un pubblico letteralmente adorante.
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